Qualcosa doveva avermi disturbata senza che ne avessi coscienza. Ero stizzita, indispettita, distratta. Non vedevo l’ora di andar via, per essere di nuovo finalmente sola.
Mi riaccompagnasti senza una parola. Non avevo voglia nemmeno di salutarti. Quando tentasti di aprire la bocca, la portella dell’auto ti zittì col suo rumore secco.
Tornai a casa con una tristezza infinita. Mi lanciai sul letto vestita.
In piena notte udii il discreto battere delle tue nocche sulla porta.
Aprii. Ti vidi come nelle trame di un sogno. Avevi fra le mani, dio solo sa presa dove, una splendida rosa bianca. Solo per me.
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“Dio ci ha creati”.
“Siamo figli di Dio”.
“E’ il Signore del cielo e della terra”.
Ma chi è questo Dio che ha solo una “D” in più di “io”?
Lo avevo avuto dentro come una certezza, senza averlo mai visto, né udito, né toccato.
Poi era sparito.
Un giorno è ricomparso. Vestiva altri panni, diversi da quelli che mi avevano insegnato ad attribuirgli. Continuavo a non vederlo, a non toccarlo… poi l’ho “sentito”, dentro, come un fiore sbocciato, profumato, non creato.
Finalmente l’ho visto.
Era lì.
Al tramonto, sul mare, il suo occhio squarciava, luminoso, le nuvole in cielo.
L'aveva voluta con quelle scarpe rosse di vernice che le aveva regalato. Un capriccio. Un gioco di seduzione.
Era arrivata con il suo tubino nero, un filo di perle al collo e quelle splendide scarpe di vernice rossa che mettevano in risalto la sinuosità delle gambe, belle, slanciate, seduttive.
L'aveva spogliata piano, come si sfoglia una rosa dai petali delicati, vellutati, disarmati.
L'aveva baciata. Prima con lo sguardo. Poi con le parole. Ancora con le labbra che l'avevano percorsa tutta.
Ora la guardava, da lontano.
Era bellissima. Ed era lì per lui. Nuda, ancora...con le sole scarpe rosse di vernice.
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