Amo leggere libri che poi mi piace commentare a parole o attraverso le immagini...
P. Bruni, LA BICICLETTA DI MIO PADRE, Pellegrini Ed., 2011
Bella la copertina, elegante, a racchiudere centotrenta pagine di intimità. E da quelle pagine, di un libro a metà fra il diario e la frammentazione dei ricordi - per cavarne il senso profondo della vita - come un'onda che torna, riecheggia il rumore dei raggi di una bicicletta. Una Legnano nera, luccicante, "la bicicletta di mio padre". Un simbolo del passato, della nostalgia, del sogno perduto, dei desideri infranti o lasciati a sciogliersi al sole. E sempre come un'onda che si ingrossa fino a diventare un'alta muraglia d'acqua verde trasparente, ritorna l'immagine di una donna. Amata, perduta e recuperata solo nel ricordo.
Nostalgia, sogno, desiderio, rimpianto, speranza, spirito eterno sono i concetti che emergono, ristagnano, vanno e tornano, ad un ritmo ora lento e ripetitivo, ora gonfio di forza che rigenera.
Il pensiero è lucido. La frase frantumata. La pagina scava nella memoria e nell'anima fino a confluire non in una conclusione, ma in un eterno ritorno sempre più consapevole.
"La bicicletta di mio padre è lì, appoggiata al solito muro. Come un tempo" recita Pierfranco Bruni, poeta, prima ancora che scrittore di una prosa che non dimentica l'andamento poetico mai e ne conserva il sapore dolce amaro che, da ossessivo ritorno alla memoria di un tempo andato, si fa quieto riesame del suo essere uomo. Un uomo che, passata la cinquantina, si trova a fare inevitabili bilanci sul senso della vita trascorsa e sul senso da imprimere a quella futura.E nel futuro, come già nel presente capace di acquietare l'anima, c'è l'incontro con lo spirito, impersonato da uno sciamano vestito di bianco. E' la parte più profonda dell'autore, la più vera. L'autenticità, a questo punto, è la scelta consapevole che fa del futuro, l'unico possibile. I ricordi, custoditi gelosamente in uno scrigno inviolabile, rimarranno gioiosi ricordi e non più inafferrabili rimpianti.
L. Pagano, "E' TUTTO NORMALE", Lupo Ed., 2011
"E' tutto normale" non è un romanzo da ingoiare in poche ore, ma da centellinare. Ogni pagina deve essere gustata, sedimentata, assimilata. Ecco perchè regge tutte le duecentosettantasei pagine in cui si dipana una storia tutt'altro che "normale". Un argomento "forte" raccontato in un contesto affascinante in cui si muovono personaggi che compaiono nel presente e ricompaiono nel passato come se l'avvicendarsi di tempo, situazioni, argomentazioni fosse "tutto normale".
E' sorprendente la capacità narrativa di Luciano Pagano che non conosce sbavature. Un architetto della parola capace di mettere su una storia che ha per protagonista un giovane neolaureato in architettura (sarà un caso?) che ha la stranezza di essere stato allevato da due padri, in assenza di una madre onnipresente - sia pure oniricamente - e che si lega a una giovane bellissima straniera intollerante. Una storia che tratta il tema dell'omosessualità con una naturalezza commovente, descrivendola in superficie e scavandola in profondità senza lasciare nulla al caso o al non detto.
C'è tutto in questo romanzo sobrio, pacato, pulito: l'amore, la morte, il tradimento, la ribellione, la poesia, il distacco, la rinuncia, l'intolleranza, la chiusura, il ripudio, la derisione, l'accettazione, la sofferenza, la speranza, la discrezione, il sacrificio, l'arte di saper tacere, la gioia, l'infelicità, la rabbia, la distrazione, la sorpresa, la tragedia. Duecentosettantasei pagine ben dosate che prendono il lettore senza travolgerlo, dandogli sempre l'opportunità di metabolizzare i contenuti forti espressi in un linguaggio misurato, capace di mostrare, come in una ripresa video, dalla parte del cineoperatore, luoghi e persone ripresi nei giusti chiaroscuri.
Tutto è "normale", anche la ricchezza della famiglia Donini, raccontata nè più nè meno come la bellezza di Eleonora o di Kris, i due personaggi femminili che invadono la vita di Marco, l'una per l'assenza e l'altra per la presenza. L'omosessualità di Carlo e di Ludovico è così tanto discreta che essi compaiono, nella narrazione, come due uomini, "diversi" solo per i propri sentimenti. Il lettore non viene sconvolto, ma condotto per mano a considerare "tutto normale".
Emblematica la figura della copertina del libro in cui compare una bambina che porta alla canna un pesce come se lo portasse al guinzaglio. Anche in questo caso, si continua a guardare la copertina per la bellezza delle figure e l'armoniosità di forme e colori, soffermandosi solo per brevi momenti di lucida razionalità, sull'impossibilità di incontrare una simile scena nella vita reale.
C'è, in questo percorso niente affatto facile ma ben condotto, un'altalenare fra consueto e atipico, vero e verosimile, ordinario e straordinario, al quale il lettore si adegua senza scossoni, in una sorta di educazione alla "diversità" presentata sempre come se tutto fosse "normale".
E' sorprendente la capacità narrativa di Luciano Pagano che non conosce sbavature. Un architetto della parola capace di mettere su una storia che ha per protagonista un giovane neolaureato in architettura (sarà un caso?) che ha la stranezza di essere stato allevato da due padri, in assenza di una madre onnipresente - sia pure oniricamente - e che si lega a una giovane bellissima straniera intollerante. Una storia che tratta il tema dell'omosessualità con una naturalezza commovente, descrivendola in superficie e scavandola in profondità senza lasciare nulla al caso o al non detto.
C'è tutto in questo romanzo sobrio, pacato, pulito: l'amore, la morte, il tradimento, la ribellione, la poesia, il distacco, la rinuncia, l'intolleranza, la chiusura, il ripudio, la derisione, l'accettazione, la sofferenza, la speranza, la discrezione, il sacrificio, l'arte di saper tacere, la gioia, l'infelicità, la rabbia, la distrazione, la sorpresa, la tragedia. Duecentosettantasei pagine ben dosate che prendono il lettore senza travolgerlo, dandogli sempre l'opportunità di metabolizzare i contenuti forti espressi in un linguaggio misurato, capace di mostrare, come in una ripresa video, dalla parte del cineoperatore, luoghi e persone ripresi nei giusti chiaroscuri.
Tutto è "normale", anche la ricchezza della famiglia Donini, raccontata nè più nè meno come la bellezza di Eleonora o di Kris, i due personaggi femminili che invadono la vita di Marco, l'una per l'assenza e l'altra per la presenza. L'omosessualità di Carlo e di Ludovico è così tanto discreta che essi compaiono, nella narrazione, come due uomini, "diversi" solo per i propri sentimenti. Il lettore non viene sconvolto, ma condotto per mano a considerare "tutto normale".
Emblematica la figura della copertina del libro in cui compare una bambina che porta alla canna un pesce come se lo portasse al guinzaglio. Anche in questo caso, si continua a guardare la copertina per la bellezza delle figure e l'armoniosità di forme e colori, soffermandosi solo per brevi momenti di lucida razionalità, sull'impossibilità di incontrare una simile scena nella vita reale.
C'è, in questo percorso niente affatto facile ma ben condotto, un'altalenare fra consueto e atipico, vero e verosimile, ordinario e straordinario, al quale il lettore si adegua senza scossoni, in una sorta di educazione alla "diversità" presentata sempre come se tutto fosse "normale".
Quando vi ucciderete maestro? Antonio Franchini
Ho riletto, dopo qualche anno, questo libro. In realtà ho riletto la prima parte ma, per la prima volta, sono riuscita ad andare fino in fondo. Lo avevo lasciato più o meno a metà. I libri arrivano nella mia vita quando è il tempo giusto. Quattro anni fa forse non era ancora il tempo giusto. mi era stato donato da un amico che si dedica alle arti marziali da molti anni con tanta passione quanta ne mette nella lettura. Un amico che sembra cercare qualcosa (chissà se ha capito cosa) nel rincorrere tatami in tutta Italia.
Mi ero persa, allora, la parte migliore del libro. L'ultima parte. Quella dove, finalmente, Antonio Franchini si decide a mettersi a nudo. Mi ero persa quella parte che, da sola, vale tutto il libro. Quella che contiene la vera anima dell'autore. Il resto è puro sfoggio di letture colte e di esaltanti accostamenti, a volte un po' noiosi, a volte sorprendenti, di sottili intuizioni illuminanti, di impescrutabili voli pindarici impossibili da seguire.
Quel che mi era rimasto di quella mezza lettura di quattro anni fa, non era poco, ma era sicuramente troppo poco rispetto a quel che mi rimarrà ora o a quel che quelle ultime pagine mi hanno trasmesso ora, tanto da sentire il desiderio irrefrenabile di scriverne, come di rado mi succede.
Mi era rimasta, allora, l'idea dello scrittore che può essere tale anche quando non abbia scritto nemmeno una riga nella sua vita... degli innumerevoli scrittori che non hanno mai avuto chances perchè assorbiti da altro o che non ne hanno avute a sufficienza perchè strappati alla vita dalla morte.
Oggi mi commuove avere conferma che quella che, a volte, può sembrare aridità di sentimenti, distacco nei confronti della sofferenza dell'altro, quasi fastidio, può essere oggetto di riflessioni nude di un autore che si è sforzato per più di cento pagine di nascondersi e che, alla fine, si decide a disvelarsi prima a se stesso. E' questo che succede realmente nella scrittura che sia lo spontaneo seguire l'ispirazione. Dirsela fino in fondo mentre ad altri la si racconta... ed accorgersi di questo solo a cose fatte, quando non è più possibile tornare indietro.
Non parla d'amore in quelle ultime pagine, nel senso che non usa mai la parola amore, ma con amore racconta al suo amore la sua incapacità di fondersi con lei anche nella sofferenza. La sua analisi è capillare anche se affidata a una manciata di pagine. La vita, a muso duro, lo mette ko e su quel tatami, gli sfilano dinanzi tutti i sentimenti negati. E, con chiara consapevolezza, anche le cause del suo modo di essere quello che è, così tanto diverso da quel che avrebbe potuto diventare. e il bello è che non si descrive mai in prima persona nell'alter ego possibile mai realizzato. Indica a lei, diafana e consumata dalla sofferenza, come sarebbe stata se avesse avuto una madre dura e realistica come la sua, concreta fino all'azzeramento dei sentimenti e alla negazione dei sostrati dell'anima.
Maestro Franchini, non è vero che non scrivi romanzi perchè non ne sei capace. E' perchè ancora non ti sei deciso a ripetere, con la mano sul cuore, in direzione del timo: "io amo"... "il mio romanzo è il migliore del mondo".
(2 giugno 2011)
Mi ero persa, allora, la parte migliore del libro. L'ultima parte. Quella dove, finalmente, Antonio Franchini si decide a mettersi a nudo. Mi ero persa quella parte che, da sola, vale tutto il libro. Quella che contiene la vera anima dell'autore. Il resto è puro sfoggio di letture colte e di esaltanti accostamenti, a volte un po' noiosi, a volte sorprendenti, di sottili intuizioni illuminanti, di impescrutabili voli pindarici impossibili da seguire.
Quel che mi era rimasto di quella mezza lettura di quattro anni fa, non era poco, ma era sicuramente troppo poco rispetto a quel che mi rimarrà ora o a quel che quelle ultime pagine mi hanno trasmesso ora, tanto da sentire il desiderio irrefrenabile di scriverne, come di rado mi succede.
Mi era rimasta, allora, l'idea dello scrittore che può essere tale anche quando non abbia scritto nemmeno una riga nella sua vita... degli innumerevoli scrittori che non hanno mai avuto chances perchè assorbiti da altro o che non ne hanno avute a sufficienza perchè strappati alla vita dalla morte.
Oggi mi commuove avere conferma che quella che, a volte, può sembrare aridità di sentimenti, distacco nei confronti della sofferenza dell'altro, quasi fastidio, può essere oggetto di riflessioni nude di un autore che si è sforzato per più di cento pagine di nascondersi e che, alla fine, si decide a disvelarsi prima a se stesso. E' questo che succede realmente nella scrittura che sia lo spontaneo seguire l'ispirazione. Dirsela fino in fondo mentre ad altri la si racconta... ed accorgersi di questo solo a cose fatte, quando non è più possibile tornare indietro.
Non parla d'amore in quelle ultime pagine, nel senso che non usa mai la parola amore, ma con amore racconta al suo amore la sua incapacità di fondersi con lei anche nella sofferenza. La sua analisi è capillare anche se affidata a una manciata di pagine. La vita, a muso duro, lo mette ko e su quel tatami, gli sfilano dinanzi tutti i sentimenti negati. E, con chiara consapevolezza, anche le cause del suo modo di essere quello che è, così tanto diverso da quel che avrebbe potuto diventare. e il bello è che non si descrive mai in prima persona nell'alter ego possibile mai realizzato. Indica a lei, diafana e consumata dalla sofferenza, come sarebbe stata se avesse avuto una madre dura e realistica come la sua, concreta fino all'azzeramento dei sentimenti e alla negazione dei sostrati dell'anima.
Maestro Franchini, non è vero che non scrivi romanzi perchè non ne sei capace. E' perchè ancora non ti sei deciso a ripetere, con la mano sul cuore, in direzione del timo: "io amo"... "il mio romanzo è il migliore del mondo".
(2 giugno 2011)
Vicolo dell'acciaio, una sorta di totem, un luogo di vita spicciola e di ordinaria follia e di morti eccellenti, tanto annunciate quanto inevitabili; in realtà via Calabria, via Polibio con cui incrocia, via Vaccarella, via Maturi, un po' più in là...
Nel vicolo dell'acciaio quasi tutti gli uomini sono o dei "prima linea" o degli "imboscati", dei "polpa da ufficio" -come li chiama il Generale - del mostro d'acciaio che, nelle 260 pagine del libro, verrà chiamato, il novantacinque per cento delle volte, Italsider più che Ilva.
L'io narrante è un diciannovenne che dentro ha coscienza di essere un fuori_dalle_righe e che, invece, nella vita di tutti i giorni si lascia sopraffare nella consapevolezza di non avere abbastanza forza e volontà per opporsi agli eventi della vita. E, con questa rassegnata modalità, si lascerà sfuggire l'amore, arriverà a chiedere scusa ad un rivoltante individuo che aveva avuto il coraggio di minacciare con un machete e non riuscirà a dire nemmeno una volta al padre quanto gli voglia bene e ad abbracciarlo prima di vederlo sparire dalla sua vita.
I ragazzi, le ragazze, i capi(famiglia) e le femmine sono indicati o con soprannomi identificativi e talora onomatopeici o con numero e via d'appartenenza. Un via Calabria 75, una via Polibio 91 sono a pieno titolo appartenenti al vicolo dell'acciaio, mentre i via Alto Adige sono irrimediabilmente fuori.
E' un libro in cui il dolore è misto alla rassegnazione di un destino già tracciato per ognuno dei capi famiglia che lavorano all'Italsider. Un dolore visto dall'interno, vissuto con una sorta di grido che rimane afono; intravisto al di qua di sbarre che privano della libertà di andar via, di sfuggire ad un destino che sembra ineludibile.
Il linguaggio, ancora una volta, è quello che ci si aspetta da ragazzi di periferia, appartenenti a famiglie medio basse, farcito di dialetto, parolacce, ironia, scherno, modi di dire di una Taranto che esce tristemente uguale a se stessa, quasi sempre al peggio.
Si rimane incollati alla lettura. Si arrivano a percepire gli odori dei sughi di Santa Rita da Cascia, madre di Mino, della disperazione e di ferro arrostito della tuta verde del Generale suo padre - un "prima linea" apparentemente incrollabile, icona del quartiere - il puzzo di un ingrassato e lercio Derviscio Dòminik.
Si vedono distintamente la bellezza di Isa, Miss Sudan e il suo vulcanico agire, le armoniose forme della dea condominiale sua madre, i cinque gechi stampati sul muro che bevono birra nell'afa estiva e che diventano quattro e tre e due, aspirati da destini infami, variati all'interno della stessa maledizione.
Nella dedica c'è già tutto il senso e il tono che prenderà corpo nelle pagine di Vicolo dell'acciaio: "ai fottuti". Un unico termine che racchiude mille significati. Una condanna senza remissione. Un'attesa a senso unico.
(21 novembre 2010)
Nel vicolo dell'acciaio quasi tutti gli uomini sono o dei "prima linea" o degli "imboscati", dei "polpa da ufficio" -come li chiama il Generale - del mostro d'acciaio che, nelle 260 pagine del libro, verrà chiamato, il novantacinque per cento delle volte, Italsider più che Ilva.
L'io narrante è un diciannovenne che dentro ha coscienza di essere un fuori_dalle_righe e che, invece, nella vita di tutti i giorni si lascia sopraffare nella consapevolezza di non avere abbastanza forza e volontà per opporsi agli eventi della vita. E, con questa rassegnata modalità, si lascerà sfuggire l'amore, arriverà a chiedere scusa ad un rivoltante individuo che aveva avuto il coraggio di minacciare con un machete e non riuscirà a dire nemmeno una volta al padre quanto gli voglia bene e ad abbracciarlo prima di vederlo sparire dalla sua vita.
I ragazzi, le ragazze, i capi(famiglia) e le femmine sono indicati o con soprannomi identificativi e talora onomatopeici o con numero e via d'appartenenza. Un via Calabria 75, una via Polibio 91 sono a pieno titolo appartenenti al vicolo dell'acciaio, mentre i via Alto Adige sono irrimediabilmente fuori.
E' un libro in cui il dolore è misto alla rassegnazione di un destino già tracciato per ognuno dei capi famiglia che lavorano all'Italsider. Un dolore visto dall'interno, vissuto con una sorta di grido che rimane afono; intravisto al di qua di sbarre che privano della libertà di andar via, di sfuggire ad un destino che sembra ineludibile.
Il linguaggio, ancora una volta, è quello che ci si aspetta da ragazzi di periferia, appartenenti a famiglie medio basse, farcito di dialetto, parolacce, ironia, scherno, modi di dire di una Taranto che esce tristemente uguale a se stessa, quasi sempre al peggio.
Si rimane incollati alla lettura. Si arrivano a percepire gli odori dei sughi di Santa Rita da Cascia, madre di Mino, della disperazione e di ferro arrostito della tuta verde del Generale suo padre - un "prima linea" apparentemente incrollabile, icona del quartiere - il puzzo di un ingrassato e lercio Derviscio Dòminik.
Si vedono distintamente la bellezza di Isa, Miss Sudan e il suo vulcanico agire, le armoniose forme della dea condominiale sua madre, i cinque gechi stampati sul muro che bevono birra nell'afa estiva e che diventano quattro e tre e due, aspirati da destini infami, variati all'interno della stessa maledizione.
Nella dedica c'è già tutto il senso e il tono che prenderà corpo nelle pagine di Vicolo dell'acciaio: "ai fottuti". Un unico termine che racchiude mille significati. Una condanna senza remissione. Un'attesa a senso unico.
(21 novembre 2010)
MISTERO IN CITTA' VECCHIA
Si può narrare con le parole ma anche con immagini e musica, ricreando atmosfere da far percepire in maniera fluida
A. Di Leo, HOMO IONICUS, Scorpione Ed., 2009
Homo ionicus, un "romanzo-verità", scritto dall'abile e veloce penna di Angelo Di Leo, acuto osservatore della realtà tarantina, che vive in prima linea le problematiche socio-politiche di una città atipica e di riflesso quelle pesantemente incancrenite di una classe sociale invischiata in una situazione che si protrae, degradandosi progressivamente, da oltre quarant'anni.
La giornata di Vito e Carmine, di Piero e Francesca, di Gianluca e Barbara - il 14 giugno – viene descritta dall’autore con la deliberata volontà di tracciare una banale giornata qualunque, di persone che vivono e lavorano in una Taranto ottusa, insensibile - almeno in apparenza - all'inconsistenza e alla precarietà della vita.
Questa giornata diventa “particolare” solo quando, come per incanto, le storie episodiche dei protagonisti della prima, seconda e terza parte, si intrecciano lasciando al lettore un insospettato stupore.
Sono pagine dense di significato per Taranto e per i tarantini.
Apatia, abulia, menefreghismo, facili soluzioni, malaffare, malavita – tutti temi che, doverosamente farciti di contenuti, lanciano solitamente Taranto nell’olimpo delle cronache nazionali – sono bilanciati da sapienti silenzi familiari, da necessità, da “bisogno” ed infine da un grido lucido e amaro ma mirato di speranza, di volontà di riscatto, proveniente dalla voce di un saggio professore.
Homo ionicus attrae, respinge, tratteggia fedelmente e scuote, commuove, restituisce la voglia di agire, di dire “no” a quanto ormai non può più essere accettato. Infine proietta Taranto oltre i propri confini per farsi comprendere prima che accettare.