Lo sai che non lo so?!
Porca miseria! Ma possibile che quando cerco uno dei quadernoni che compro puntualmente, ogni volta che entriamo in un grande magazzino, non debba trovarne neanche uno?! Ne avrò comprati decine negli ultimi sei mesi… o dodici… o diciotto? Lo sai che non lo so?!
In realtà non mi ricordo nemmeno da quanto tempo non metto piede in un supermercato, in un grande magazzino, ma neanche in un negozio.
Già! Da quanto tempo non entro in un negozio? A comprami un vestito… un paio di scarpe… un REGALO?!
Quanto mi piaceva fare regali! Ci mettevo il cuore, l’anima, tutta me stessa. Era una festa! Decidere di uscire per comprare un regalo di compleanno era una vera festa!
Che mi è successo? Perché non compro più regali? Perché non è più una festa comprare regali? Lo sai che non lo so?!
Troppo comodo dire “lo sai che non lo so?!” Ma in realtà NON LO SO… o non voglio saperlo. Non voglio scavare. Non voglio scoprire. Non voglio sapere. Non voglio… non voglio… NON VO-GLIO.
Ehiii, ma quanto corro con la mente, coi pensieri.
Stavo cercando uno dei miei quadernoni. Quelli grandi che quando ero piccola chiamavamo computisteria. Allora proprio non capivo perché si chiamasse COM-PU-TI-STE-RI-A.
Non capivo e non indagavo. Mai chiesto, mai cercato, nemmeno sul vocabolario.
Quanti vocabolari ho avuto nella mia vita? Il Gabrielli, lo Zingarelli che Gaia, la cana, si mangiò quando era piccola. Era incazzata nera, secondo me, per il fatto che la mattina uscivamo tutti da casa e la lasciavamo sola. Qualcosa doveva pur fare per farci capire che era incazzata. E quella volta si mangiò lo Zingarelli. Cacchio! Nuovo di zecca e tutto mangiato, strappato, divelte alcune pagine, rosicchiati tutti gli angoli in alto.
E gli altri vocabolari? Il Devoto. Caro e amato Devoto. E prima? Boh… lo sai che non lo so?! Non mi ricordo proprio. E’ come se ci fosse un vuoto di anni nella mia testa. Tutti gli anni dell’università e del liceo… e anche delle medie. Però… però.. mi ricordo il mio “primo” vocabolario, quello delle elementari Il “Piccolo Palazzi”. Quanto era carino! Piccolo… ma di cuore.
Rido!
A volte mi tornano in mente queste frasi che non ricordo nemmeno a quando risalgano. “Piccolo ma di cuore”… frasi che fanno parte di me. Questa, come tante altre, fa parte di quell’idioma familiare che ti accompagna da sempre e… per sempre. “Piccolo ma di cuore” lo diceva sempre mia madre. Così come quando due di noi dicevano la stessa parola nello stesso momento, lei diceva “le sorelle Materassi”… che certo era un suo modo di accomunare un fatto abbastanza improbabile al cognome di queste sorelle, altrettanto improbabile e che per lei risaliva a quando ne aveva visto la trasposizione non so se televisiva o cinematografica.
Ma il mio quadernone, dov’è? L’ultimo me lo ricordo bene. Ha la copertina fondo nero e poi, in prima facciata, c’è, giallo, enorme, Bart Simpson.
Bart?! No… forse il figlio… come si chiama il figlio? Lo sai che non lo so?!
Non è possibile che non lo sappia. Chissà quante volte l’ho sentito e chissà quante volte lo avrò nominato.
Dentro, le pagine hanno i quadrettoni grossi. Sono già parecchi anni che quadernoni o fogli forati li prendo sempre a quadrettoni. Mi piacciono. Mi piace scrivere sui quadrettoni. I quadrettini, quelli piccoli, mi infastidiscono come pure le righe. I quadrettoni, invece, mi invitano a scrivere, a scrivere. Chissà, forse perché il mio primissimo quaderno delle scuole elementari era così, con questi quadrettoni grandi. Non si usavano più. Non erano più in commercio…eppure… la mia maestra riuscì a scovare una cartoleria che li vendeva ancora. E mandò tutte le nostre mamme a comprarli.
Quel mio primo quaderno aveva i fogli gialli. No, non proprio gialli. Erano di un bianco sporco antico e la copertina era nera, un po’ increspata, semilucida. Mia madre mi diceva sempre che era un quaderno come quelli che aveva usato lei ai suoi tempi. E che non si usavano più.
Come non si usavano più nemmeno pennino e calamaio. E invece la mia maestra, per i primi mesi della prima elementare, quando c’erano penne stilografiche e penne biro, impose alle nostre mamme di comprare inchiostro e pennini. Poi, quando una bambina – me la ricordo ancora, si chiamava Picci e aveva le trecce lunghe, tirate su e fermate, a formare come delle grosse gocce, con dei fiocchi dietro le orecchie e spessi occhiali con delle lenti che le rendevano gli occhi enormi: “che occhi grandi che hai!” – un giorno, non so nemmeno come fece, si versò l’inchiostro dell’intero calamaio addosso sporcandosi tutto il grembiulino bianco, i vestiti, le calze, le scarpe, per terra, allora la maestra decise che, dal giorno successivo, avremmo usato le penne biro.
Era il 1961.
La scuola allora incominciava ad ottobre. La storia del calamaio e dei pennini forse durò un paio di mesi, perché – mi ricordo – per Natale, quella prima letterina, con una scrittura sbilenca, la scrissi con la penna biro. Una BIC. Blu o nera? Lo sai che non lo so?!
Adesso, ogni volta che ho voglia di scrivere, impazzisco a cercare una penna nera. Ne trovo sempre di blu, di rosse. Perfino di verdi e di viola. Ma quelle nere – e sì che ogni volta che compro penne , le prendo sempre, rigorosamente nere – sembra che si divertano a nascondersi, sparire, occultarsi. Poi, quando non le cerco, quando non mi servono, quando non ho alcuna voglia di scrivere, ecco che le penne nere sbucano dalle borse, dalle tasche, dai cassetti, perfino dagli interstizi dei divani, dalle scatole, da dietro i mobili, da sotto le librerie. Si moltiplicano. Crescono. M’invadono. Salvo a sparire di nuovo quando me ne servirà una per scrivere su uno dei miei quadernoni a quadrettoni che – accidenti! – ancora non trovo.
Ma dove devo cercali vorrei sapere… dove? Lo sai che non lo so?!
Fermare la mente
La mente andava senza che potesse fermarla. I pensieri, come fiumi si moltiplicavano invadendo ogni spazio. Si costrinse a fermarli. Riprese a guardarsi senza vedersi, volutamente. Abbassò gli occhi e, lentamente, incominciò a spogliarsi. Vuotare la mente. Compiere azioni conosciute senza doversi costringere a pensare .
Con un unico movimento di entrambe le braccia si liberò della parte superiore del pigiama. Ripetendo quasi lo stesso movimento tolse anche la maglietta. Si piegò istintivamente accompagnando il movimento dello sfilare prima una gamba e poi l'altra dai pantaloni. Rimase a piedi nudi.
Si accorse di essere già nuda senza avere sentore di alcun movimento realizzato. Fu solo in quel momento che si rese conto di aver anticipato i tempi. La vasca era ancora vuota. Incominciò dal tappo. Ruotò verso sinistra la manopola che ne assicurava la chiusura. Ripetè lo stesso movimento azionando il rubinetto dell'acqua calda. E ancora una volta mosse verso sinistra la manopola che regolava il flusso dal rubinetto anzichè dalla doccetta. Chiuse la finestra. Aspettò.
Seduta sul bordo della vasca si fece cullare dallo scroscio dell'acqua che incominciò a cambiare.
Abbassò lo sguardo verso i piedi nudi. Erano belli, sfilati, con le caviglie ancora esili ma forti, più forti di quando, ragazza, sembrava dovessero spezzarsi. Anche i polpacci erano cresciuti da allora come le cosce.
Stava ricominciando a pensare e non voleva. Guardò la vasca piena a metà. Si alzò. Scrollò la testa quasi a liberarsi di quei pensieri che sarebbero tornati a dolerle e, decisa, infilò prima un piede e poi l'altro nell'acqua semibollente.
Un rapido benessere la invase. Il bagno, la mattina, aveva questo magico potere, lavava la stanchezza e la riconciliava col mondo. Si abbandonò all'indietro adagiandosi sul fondo e sentì ancora una volta il mutare del rumore dell'acqua che da scrosciante divenne pastosamente complice.
Nessuna fretta quella mattina. Poteva finalmente prendersi cura di sè, del suo corpo, dei suoi pensieri - se li avesse voluti, ma non li voleva - rallentando i movimenti fino a fermarli. Stette, così, senza aspettative, senza obiettivi, senza...
L'acqua scorreva ma poi si mischiava a quella che già era sul fondo e che sarebbe stata immobile, come lei, se solo avesse avuto voglia di chiudere il rubinetto. Non l'aveva. Non avrebbe voluto averla neanche in seguito. Quella mattina avrebbe sperimentato l'ebbrezza del non agire. Non aveva voglia di constatare quel che sarebbe successo. Semplicemente non voleva agire. Voleva lasciarsi andare, mente e corpo, cuore e anima. Così.
Con un unico movimento di entrambe le braccia si liberò della parte superiore del pigiama. Ripetendo quasi lo stesso movimento tolse anche la maglietta. Si piegò istintivamente accompagnando il movimento dello sfilare prima una gamba e poi l'altra dai pantaloni. Rimase a piedi nudi.
Si accorse di essere già nuda senza avere sentore di alcun movimento realizzato. Fu solo in quel momento che si rese conto di aver anticipato i tempi. La vasca era ancora vuota. Incominciò dal tappo. Ruotò verso sinistra la manopola che ne assicurava la chiusura. Ripetè lo stesso movimento azionando il rubinetto dell'acqua calda. E ancora una volta mosse verso sinistra la manopola che regolava il flusso dal rubinetto anzichè dalla doccetta. Chiuse la finestra. Aspettò.
Seduta sul bordo della vasca si fece cullare dallo scroscio dell'acqua che incominciò a cambiare.
Abbassò lo sguardo verso i piedi nudi. Erano belli, sfilati, con le caviglie ancora esili ma forti, più forti di quando, ragazza, sembrava dovessero spezzarsi. Anche i polpacci erano cresciuti da allora come le cosce.
Stava ricominciando a pensare e non voleva. Guardò la vasca piena a metà. Si alzò. Scrollò la testa quasi a liberarsi di quei pensieri che sarebbero tornati a dolerle e, decisa, infilò prima un piede e poi l'altro nell'acqua semibollente.
Un rapido benessere la invase. Il bagno, la mattina, aveva questo magico potere, lavava la stanchezza e la riconciliava col mondo. Si abbandonò all'indietro adagiandosi sul fondo e sentì ancora una volta il mutare del rumore dell'acqua che da scrosciante divenne pastosamente complice.
Nessuna fretta quella mattina. Poteva finalmente prendersi cura di sè, del suo corpo, dei suoi pensieri - se li avesse voluti, ma non li voleva - rallentando i movimenti fino a fermarli. Stette, così, senza aspettative, senza obiettivi, senza...
L'acqua scorreva ma poi si mischiava a quella che già era sul fondo e che sarebbe stata immobile, come lei, se solo avesse avuto voglia di chiudere il rubinetto. Non l'aveva. Non avrebbe voluto averla neanche in seguito. Quella mattina avrebbe sperimentato l'ebbrezza del non agire. Non aveva voglia di constatare quel che sarebbe successo. Semplicemente non voleva agire. Voleva lasciarsi andare, mente e corpo, cuore e anima. Così.
Pigrizia
Passò un tempo indefinibile mentre riusciva ad essere immobile con la mente e col corpo. Avrebbe potuto perfino addormentarsi, sprofondare nell'acqua al di sotto della distanza di sicurezza dalle narici che si sarebbero riempite inalando acqua nei polmoni. Era evidente, però, che qualcosa rimanesse vigile dentro di lei, perchè come l'acqua si avvicinava tentando di penetrarle dentro, un piccolo movimento, quasi un sussulto di tutto il corpo, faceva in modo che l'acqua defluisse ritraendosi impaurita dal movimento appena agito.
Con pigrizia, senza deciderlo ma semplicemente seguendo un impulso arrivato da lontano, con un unico movimento, vide le braccia protendersi verso il bordo della vasca, una mano afferrare il bagnoschiuma e versarlo nell'altra pronta a coppa. Con movimenti conosciuti che non le imponevano alcuno sforzo incominciò ad insaponare un piede, la caviglia, il polpaccio, il ginocchio, la coscia che sporgeva ora dall'acqua. Ripetè una seconda volta gli stessi movimenti, con l'altro piede, l'altra caviglia, fino alla coscia.
I movimenti erano lenti, stanchi, apparentemente involontari, volutamente ripetitivi, come le note di un carillon che ricominciano esattamente uguali a loro stesse nel momento in cui la musica finisce. E come una bambola d'altri tempi che si muove a scatti e lentamente, al suono delle note del suo carillon, continuò ad insaponare il ventre e i seni e gli omeri rinunciando a raggiungere la schiena. Avvolse il collo in una carezza languida a due mani. Raggiunse orecchie e guance e occhi e fronte. Scomparve con un unico movimento del bacino, sepolta dall'acqua ancora calda. Indugiò a lungo con shampoo e balsamo con le dita fra i capelli a carezzare e massaggiarne l'attaccatura. Solo l'acqua della doccetta sul viso la svegliò da quel torpore. E con un balzo fu fuori ad avvolgersi nella morbida spugna dell'accappatoio a strisce.
Con pigrizia, senza deciderlo ma semplicemente seguendo un impulso arrivato da lontano, con un unico movimento, vide le braccia protendersi verso il bordo della vasca, una mano afferrare il bagnoschiuma e versarlo nell'altra pronta a coppa. Con movimenti conosciuti che non le imponevano alcuno sforzo incominciò ad insaponare un piede, la caviglia, il polpaccio, il ginocchio, la coscia che sporgeva ora dall'acqua. Ripetè una seconda volta gli stessi movimenti, con l'altro piede, l'altra caviglia, fino alla coscia.
I movimenti erano lenti, stanchi, apparentemente involontari, volutamente ripetitivi, come le note di un carillon che ricominciano esattamente uguali a loro stesse nel momento in cui la musica finisce. E come una bambola d'altri tempi che si muove a scatti e lentamente, al suono delle note del suo carillon, continuò ad insaponare il ventre e i seni e gli omeri rinunciando a raggiungere la schiena. Avvolse il collo in una carezza languida a due mani. Raggiunse orecchie e guance e occhi e fronte. Scomparve con un unico movimento del bacino, sepolta dall'acqua ancora calda. Indugiò a lungo con shampoo e balsamo con le dita fra i capelli a carezzare e massaggiarne l'attaccatura. Solo l'acqua della doccetta sul viso la svegliò da quel torpore. E con un balzo fu fuori ad avvolgersi nella morbida spugna dell'accappatoio a strisce.
Sogno
Si strofinò energicamente con la spugna dell'accappatoio. Pettinò i capelli che, lunghi, le scendevano sulle spalle e li asciugò al sole che inondava il terrazzino. Ogni tanto li ravviava infilando le dita a massaggiare il cuoio capelluto, chiudeva gli occhi e godeva di quel tepore primaverile.
Le piaceva sentirsi nuda al di sotto della spugna. Le gambe si incontravano mentre le faceva andare in un languido movimento ora all'esterno, ora all'interno. Le mani scivolavano ad accarezzare la spugna e l'una e l'altra coscia. Sentiva di avere un corpo che poteva percepire al tatto e con il calore del sole.
Si era imposta di non pensare e per tutto il giorno avrebbe continuato a cercare di fermare la mente. Stare! Senza pensare...
Ogni tanto apriva gli occhi e, nel momento in cui, si accorgeva di essere già pronta ad alzarsi per andare a staccare una foglia secca dalla pianta di geranio, s'imponeva di fermare ogni movimento e ogni intenzione. Ferma. Così.
Rimase lì senza sapere quanto. Non aveva importanza il tempo che passava, inesorabile, come sempre. Per quel giorno non avrebbe avuto orari da rispettare, solo la deliberata volontà di lasciarsi vivere perchè non poteva impedirsi di respirare.
Coi capelli ormai ascutti, si alzò e raggiunse il letto, senza averlo cercato. Si sdraiò e ritrovò il tepore della notte, gli odori della notte, ma non i fantasmi.
Il sogno era appena dietro le palpebre ad aspettarla.
Era una strada sterrata, deserta, di terra rossa. Un'auto, non conosciuta, ma sua, era lì ferma, aperta. Entrò. Accese il motore. Partì. Destinazione ignota. L'auto andava, col finestrino aperto e il vento che le scompigliava i capelli. Una strana felicità si era impossessata del cuore e della mente che sentiva leggeri. Per la strada nessuno. Andava senza sapere dove a una velocità che piano aumentava. E vide il mare. Rallentò fino a fermarsi. Nessuno. Scese. I passi, lenti, sulla sabbia calda lasciavano tracce appena visibili. Tolse le scarpe e le lasciò sulla sabbia. Continuò a camminare. Ancora nessuno. Eppure era come se fosse andata certa di incontrarlo. Sapeva che prima o poi sarebbe successo. E quella strana, languida attesa la faceva sorridere al sole e alla brezza marina.
Sedette, non stanca, guardando il cielo che incontrava il mare. Silenzio e una pace che invadeva ogni spazio dell'anima. Inspirò, forte, a riempire i polmoni più che potè. Trattenne il respiro fino a sentire un leggero malessere. Piano permise all'aria di uscire dalla bocca. Chiuse gli occhi. Sentì un abbraccio caldo e forte, uno sfiorar di labbra. Aprì gli occhi. E si ritrovò nel letto che odorava di notte.
Una giornata da ricordare
Si ritrovò a pensare. Ora sì che le andava di farlo. Quell'abbraccio! Quel calore! Quel bacio appena accennato! Era come se, nel sogno, fosse riuscita a percepire, nettamente, la risposta ai suoi desideri.
Lo aveva visto per la prima volta per strada. Era rimasta folgorata da quello sguardo intenso che l'aveva indotta a non abbassare il suo. Si era ritrovata ad essere calamitata da quei suoi occhi di un azzurro quasi imbarazzante per l'intensità dei toni. Ed era rimasta muta, quasi immobile, catturata in un pensiero che era diventato anche il suo. Quella prima volta era stato come se la direzione degli sguardi fosse bastata, con l'esattezza della traiettoria, ad eliminare, tutt'intorno, ogni cosa. Era rimasto solo quel presente di un'intensità mai provata prima. Si era sentita bene. Si era sentita bella ed unica.
Mollemente sdraiata, con la testa abbandonata sul braccio destro poggiato sul cuscino, si rotolò nel ricordo di quello sguardo che non avrebbe mai più dimenticato. E la mente incominciò ad andare, libera, a rincorrere il ricordo di quando aveva incrociato ancora quegli occhi azzurri come il mare d'inverno.
Era stato all'uscita dal cinema. Lui solo. All'improvviso era stato come se fossero senza più mondo intorno. Il corpo a far da tramite all'espandersi dell'anima. Le anime a fondersi in una sola. Il cuore ad inglobare l'universo ancora da creare o già finito.
Aveva sentito scorrere, con il sangue, un'emozione folle. Quello sguardo l'aveva ritrovata, senza cercarla, esattamente come la prima volta. E lei si era sentita invadere da una gioia pura che aveva visto specchiata in quell'azzurro mare.
Il sogno, nutrito ad occhi aperti, l'aveva vista chiudere gli occhi, ogni notte, nella speranza di rivederlo ancora, di sentirne l'abbraccio così come abbracciata si era sentita da quello sguardo che le squarciava l'anima. Ma la notte non aveva portato che ombre e fantasmi, lasciandola, per mesi, in quello stato di desiderio inespresso.
Quella mattina era successo, così, dopo che aveva accettato lo scorrere della sua vita senza speranza di rivederlo per strada o in sogno. Ed ora assaporava quell'accenno di felicità che l'aveva sfiorata appena prima di riaprire gli occhi.
Ricordi
Tornò alla mente un ricordo improvviso che aveva vent'anni.
Era andata al mare con Cinzia, sua coetanea e Michela, dodici anni più grande di loro. Aveva guardato il viso liscio e bello di Michela e aveva formulato un pensiero col quale si augurava di arrivare a trentanove anni così, bella e fresca come l'amica. La sua giovane età non la rendeva immune da pensieri proiettati verso il futuro. L'essere bella, magra, giovane era una condizione inevitabilmente soggetta al cambiamento. Non si faceva illusioni. Non sapeva come avrebbe affrontato quel che l'aspettava.
Sorrise al ricordo di quel pensiero di vent'anni prima, ora che anche i suoi trentanove anni erano passati da un bel po'. E si disse che, in fondo, era stata poco generosa con se stessa se aveva ambito solo a conservare la pelle liscia di Michela. I suoi trentanove anni erano arrivati con un carico di malinconia e d'incapacità di accettare i cambiamenti fisici, ma l'avevano colta ancora bella e attraente, molto più di quanto non fosse Michela a quella stessa età.
Quel vestito a fiorellini su fondo blu aveva fatto girare la testa a più d'uno e il suo modo di indossarlo l'aveva resa seduttiva molto più di quanto allora non fosse stata cosciente.
Si alzò lentamente, ma con la fretta di andare a trovare quella foto che ricordava essere esattamente di quel periodo. Era come se la mente corresse molto più di quanto il corpo non fosse disposto ad obbedirle.
Nel soggiorno aprì la portella in cui conservava le foto, sotto la libreria. Scartò tutti gli album ordinati, zeppi di fotografie già sistemate. Prese una grande scatola nella quale c'erano foto di tutti gli anni, in ordine sparso, che aspettavano una collocazione che forse non sarebbe arrivata mai. Decise di non soffermarsi su ognuna. Doveva arrivare a quella. Era una specie di richiamo, troppo forte per essere ignorato.
Eccola! La prese con voluttà, quasi. Come se potesse, in quel gesto, riappropriarsi del tempo passato e ormai perduto per sempre.
I capelli erano lunghi e lucenti. Il vestito era proprio quello a fondo blu con un'apertura sul davanti che le scopriva una coscia. L'espressione concentrata, seria. Dio com'era bella ancora, ma allora non lo sapeva. La vita scorreva e lei non sapeva trattenerla, non riusciva a viverla a pieno, non sapeva penetrarla. Per tanti anni ancora avrebbe continuato a lasciarsi vivere guardandosi indietro e temendo di proiettarsi nel futuro, dimenticando di vivere il presente con quella gioia che solo ora aveva incominciato ad assaporare. Sorrise, sfiorando con le mani la patina lucida della foto di oltre dieci anni prima.
Pensieri
Guardò il telefono che in quello stesso momento incominciò a squillare come se avesse avuto il presentimento che qualcuno avesse composto il suo numero un istante prima. Lo guardò a lungo. Non si mosse. Lo sguardo fisso. Non aveva voglia di parlare, chiunque fosse stato di là dal filo. Avrebbe potuto fare un’unica eccezione ma non esisteva alcun presupposto perché il suo desiderio potesse avverarsi.
Si abbandonò a quel pensiero che le era sempre più dolce mentre una specie di bolla la isolava dal resto della realtà impedendole perfino di udire lo squillo del telefono che si ripeteva, ossessionante, all’infinito.
Quegli occhi! Le era sembrato di leggervi un’intera vita senza che lei sapesse nulla di lui e senza che volesse sapere nulla di lui. Era stato un dolce sogno che si era ripetuto due volte e che avrebbe potuto rientrare nel nulla esattamente come dal nulla era penetrato in lei attraverso quello sguardo. Che cosa mai era successo? Come poteva quello sguardo aver penetrato la sua anima tanto da rimanere indelebile anche a distanza di mesi? Non sapeva spiegarselo. E, in fondo, non era importante spiegarselo. Tante cose avvengono senza che ci sia una spiegazione logica plausibile.
Uscire, ecco che cosa avrebbe fatto per allontanarsi da quel torpore che la stava invadendo facendola immalinconire. Dal primo cassetto prese la biancheria. Dal secondo le calze. Incominciò a vestirsi lentamente, quasi assaporando il tempo che aveva a disposizione. Le piaceva la biancheria colorata e di pizzo. Fuxia, un colore insolito, eppure così caldo. Arrotolò le calze per infilarle prima in una gamba, poi nell’altra, con il fare imparato tanti anni prima, accorta a non sfilarle. Era una specie di lunga e rilassata carezza che si faceva mentre faceva aderire il tessuto ad ogni centimetro di pelle dalle dita del piede e sù fino alla coscia. Quella pelle, era la sua! Quel corpo, era il suo! Quel pensiero, era il suo! Eppure, pelle, corpo,mente, cambiavano ogni giorno, ogni momento, in un continuo divenire al quale non poteva sottrarsi neanche se lo avesse voluto.
Si abbandonò a quel pensiero che le era sempre più dolce mentre una specie di bolla la isolava dal resto della realtà impedendole perfino di udire lo squillo del telefono che si ripeteva, ossessionante, all’infinito.
Quegli occhi! Le era sembrato di leggervi un’intera vita senza che lei sapesse nulla di lui e senza che volesse sapere nulla di lui. Era stato un dolce sogno che si era ripetuto due volte e che avrebbe potuto rientrare nel nulla esattamente come dal nulla era penetrato in lei attraverso quello sguardo. Che cosa mai era successo? Come poteva quello sguardo aver penetrato la sua anima tanto da rimanere indelebile anche a distanza di mesi? Non sapeva spiegarselo. E, in fondo, non era importante spiegarselo. Tante cose avvengono senza che ci sia una spiegazione logica plausibile.
Uscire, ecco che cosa avrebbe fatto per allontanarsi da quel torpore che la stava invadendo facendola immalinconire. Dal primo cassetto prese la biancheria. Dal secondo le calze. Incominciò a vestirsi lentamente, quasi assaporando il tempo che aveva a disposizione. Le piaceva la biancheria colorata e di pizzo. Fuxia, un colore insolito, eppure così caldo. Arrotolò le calze per infilarle prima in una gamba, poi nell’altra, con il fare imparato tanti anni prima, accorta a non sfilarle. Era una specie di lunga e rilassata carezza che si faceva mentre faceva aderire il tessuto ad ogni centimetro di pelle dalle dita del piede e sù fino alla coscia. Quella pelle, era la sua! Quel corpo, era il suo! Quel pensiero, era il suo! Eppure, pelle, corpo,mente, cambiavano ogni giorno, ogni momento, in un continuo divenire al quale non poteva sottrarsi neanche se lo avesse voluto.
Passeggiata
Finì di vestirsi accelerando i tempi. Voleva godere del sole di quella mattina. Non aveva una meta precisa. Sapeva solo di voler uscire, senza orari, senza obbligo di rientrare.
Infilò una gonna lunga, a balze, di velluto; un incrociatino e una pachmina al collo. Calzò stivali bassi, stringati. Rinunciò ad infilare il giubotto di pelle. Prese la borsa e le chiavi e infilò la porta.
In strada, la tensione che aveva sentito accumularsi durante l'ultima mezz'ora, si allentò. I negozi stavano chiudendo uno dopo l'altro. Solo in quel momento si rese conto di quanto avesse indugiato, quella mattina, regalandosi un tempo rilassato per non pensare, per sognare, per poi pensare e ricordare.
Incominciò a guardare distrattamente le vetrine dei negozi chiusi, i visi delle persone che andavano nella direzione opposta alla sua e le spalle di chi, con passo sostenuto, la superava. Qualcuno la urtò senza vederla e senza fermarsi o rallentare.
Il senso di liberazione che l'aveva colta appena uscita, incominciò a diventare lentamente un senso di tristezza piena. La sua calma strideva con i tempi di chi le girava intorno senza pensare ad altro che fare in fretta. Non sapeva che cosa fosse quella sensazione che montava in qualche parte del torace e si espandeva fino alla fronte localizzadosi fra un occhio e l'altro. Un senso di oppressione le dette quasi una vertigine. Si impose di non fermarsi e di non dare sfogo alla voglia di piangere che si affacciò improvvisa. Aveva abbastanza forza per imporsi di non farlo con quel bel sole che avrebbe potuto suggerirle pensieri gioiosi. Era quella sensazione di vuoto che, ultimamente, aveva sentito sempre più spesso a farle toccare la solitudine del cuore. Ma non voleva pensarci. Non voleva abbandonarsi.
Alzò il passo e si ritrovò a cercare con lo sguardo l'auto parcheggiata la sera prima non distante da casa.
Infilò la chiave e aprì cercando e trovando un posto chiuso e familiare che le ridette la sensazione di esserea casa.
Come in uno dei passaggi di sogno in cui il tempo ha la capacità di essere impalpabile, si ritrovò sulla strada che andava verso il mare. Col finestrino aperto e il vento fra i capelli ebbe, netta, la sensazione di sentirsi all'interno del suo sogno di quella mattina dopo il bagno. Ritrovò il sorriso e la serenità.
Accese una sigaretta. Ignorò il cellulare che squillava. Andare, era l'unica condizione che avrebbe potuto riempire il senso di vuoto che si era affacciato come una voragine incredibilmente grande tanto da averle dato la sensazione di potersi perdere.
Era intenzionata ancora ad allontanare ogni pensiero. Era in macchina senza una meta a correre verso il mare. E quando intravide il medesimo scorcio di spiaggia, si fermò, incantata da quella strana analogia fra realtà e sogno.
Fermò l'auto. Scese. Sfilò stivali e calze lasciandoli sulla sabbia calda. A piedi nudi ritrovò la voglia di respirare. Guardò in alto il cielo azzurro spruzzato di nuvole bianche.
Un pensiero, uno solo, riuscì a penetrarla tutta. Era viva. E tutto il mondo intorno era un dono che non avrebbe potuto mai essere sprecato abbandonadosi a pensieri di solitudine.
La sensazione di vuoto, provata ormai da giorni, era stato il terreno fertile su cui avrebbe, piano, costruito la sua gioia di vivere e la gratitudine per godere della vita e della natura e delle persone che avrebbe incontrato ancora.
Tutto il passato con i suoi amori e le illusioni e le delusioni e i sentimenti negativi e positivi che aveva provato, era passato. Quel cielo era testimone di una nascita dell'anima che fino ad allora era stata sottilmente inibita. La realtà non sarebbe più stata dissimile dal sogno. Chiuse gli occhi e si abbandonò fidandosi di quei pensieri e affidandosi. Sentì il sole caldo e in quel calore risentì l'abbraccio e uno sfiorar di labbra.
Infilò una gonna lunga, a balze, di velluto; un incrociatino e una pachmina al collo. Calzò stivali bassi, stringati. Rinunciò ad infilare il giubotto di pelle. Prese la borsa e le chiavi e infilò la porta.
In strada, la tensione che aveva sentito accumularsi durante l'ultima mezz'ora, si allentò. I negozi stavano chiudendo uno dopo l'altro. Solo in quel momento si rese conto di quanto avesse indugiato, quella mattina, regalandosi un tempo rilassato per non pensare, per sognare, per poi pensare e ricordare.
Incominciò a guardare distrattamente le vetrine dei negozi chiusi, i visi delle persone che andavano nella direzione opposta alla sua e le spalle di chi, con passo sostenuto, la superava. Qualcuno la urtò senza vederla e senza fermarsi o rallentare.
Il senso di liberazione che l'aveva colta appena uscita, incominciò a diventare lentamente un senso di tristezza piena. La sua calma strideva con i tempi di chi le girava intorno senza pensare ad altro che fare in fretta. Non sapeva che cosa fosse quella sensazione che montava in qualche parte del torace e si espandeva fino alla fronte localizzadosi fra un occhio e l'altro. Un senso di oppressione le dette quasi una vertigine. Si impose di non fermarsi e di non dare sfogo alla voglia di piangere che si affacciò improvvisa. Aveva abbastanza forza per imporsi di non farlo con quel bel sole che avrebbe potuto suggerirle pensieri gioiosi. Era quella sensazione di vuoto che, ultimamente, aveva sentito sempre più spesso a farle toccare la solitudine del cuore. Ma non voleva pensarci. Non voleva abbandonarsi.
Alzò il passo e si ritrovò a cercare con lo sguardo l'auto parcheggiata la sera prima non distante da casa.
Infilò la chiave e aprì cercando e trovando un posto chiuso e familiare che le ridette la sensazione di esserea casa.
Come in uno dei passaggi di sogno in cui il tempo ha la capacità di essere impalpabile, si ritrovò sulla strada che andava verso il mare. Col finestrino aperto e il vento fra i capelli ebbe, netta, la sensazione di sentirsi all'interno del suo sogno di quella mattina dopo il bagno. Ritrovò il sorriso e la serenità.
Accese una sigaretta. Ignorò il cellulare che squillava. Andare, era l'unica condizione che avrebbe potuto riempire il senso di vuoto che si era affacciato come una voragine incredibilmente grande tanto da averle dato la sensazione di potersi perdere.
Era intenzionata ancora ad allontanare ogni pensiero. Era in macchina senza una meta a correre verso il mare. E quando intravide il medesimo scorcio di spiaggia, si fermò, incantata da quella strana analogia fra realtà e sogno.
Fermò l'auto. Scese. Sfilò stivali e calze lasciandoli sulla sabbia calda. A piedi nudi ritrovò la voglia di respirare. Guardò in alto il cielo azzurro spruzzato di nuvole bianche.
Un pensiero, uno solo, riuscì a penetrarla tutta. Era viva. E tutto il mondo intorno era un dono che non avrebbe potuto mai essere sprecato abbandonadosi a pensieri di solitudine.
La sensazione di vuoto, provata ormai da giorni, era stato il terreno fertile su cui avrebbe, piano, costruito la sua gioia di vivere e la gratitudine per godere della vita e della natura e delle persone che avrebbe incontrato ancora.
Tutto il passato con i suoi amori e le illusioni e le delusioni e i sentimenti negativi e positivi che aveva provato, era passato. Quel cielo era testimone di una nascita dell'anima che fino ad allora era stata sottilmente inibita. La realtà non sarebbe più stata dissimile dal sogno. Chiuse gli occhi e si abbandonò fidandosi di quei pensieri e affidandosi. Sentì il sole caldo e in quel calore risentì l'abbraccio e uno sfiorar di labbra.